Vi è una parola francese che esprime al meglio la crisi depressiva di chi sopravvive nella noia e nel pessimismo: “cafard”.
“Avoir le cafard” significa essere annoiati e delusi per lunghi periodi di attesa, senza avere delle significative prospettive per il futuro, sentirsi inutili, senza speranze, tediosi.
Quando ci si sente impastoiati dalle sabbie mobili del “cafard” si tende ad essere schivi, evitare i contatti sociali, isolarsi nelle proprie illusioni ed utopie irrealizzabili.
Questo fenomeno, diffuso tra i soldati che passano lunghi periodi di inattività in trincea o in postazioni marginali (come i Marines statunitensi durante la guerra del Vietnam), è ora presente in chi sopravvive nelle periferie delle città, soprattutto in quei paesi emergenti dove la gente ha abbandonato la vita rurale per abitare in megalopoli costruite in modo standartizzato nel giro di pochi decenni.
Lo stile di vita distante dalla natura, la necessità di sostenere ritmi di lavoro frenetici ma con lunghi periodi di inattività forzata (code in auto, attesa per i trasporti pubblici, lentezza per ricevere messaggi, o risposte o assistenza ecc.), la disabitudine ad essere pazienti, la non educazione all’ascolto interiore, la non applicazione di una corretta respirazione, creano un forte stato di stress che, come un elastico tirato al massimo, all’improvviso esplode con una reazione violenta, rivolta verso se stessi o contro gli altri.
Un piccolo orto su un balcone, la propensione ad osservare con attenzione l’ambiente, la continua sintonia con le proprie emozioni e con i propri sentimenti, la ricerca di colore, sapore, profumo anche nelle piccole cose, possono aiutare ad evitare il “cafard”, permettendo di vivere dignitosamente, anche in condizioni apparentemente deprimenti e noiose.
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